martedì 29 aprile 2014

Un giorno da Elfo



E' una mattina di primavera, il sole è già alto quando ci prepariamo e usciamo di casa in tutta fretta. L'aria è fresca, siamo entusiasti e pieni di adrenalina per quella che si preannuncia essere una giornata memorabile. Percorriamo la strada che ci separa dal castello tra risate e canti e dopo circa un'ora arriviamo a destinazione.

Il villaggio brulica di gente entusiasta, è il giorno della grande festa. Chiediamo a un gentiluomo di indicarci la via per accedere alla fortezza. Sorride, non siamo i primi a chiedere informazioni. Imbocchiamo un sentiero laterale che ci conduce ai piedi delle mura. La strada sale impervia fino al cancello dove alcune guardie ci intimano di fermarci. La cosa non ci infastidisce, sappiamo bene che c'è il rischio che il nemico possa intrufolarsi per guastare la festa. Le torri svettano alte nel cielo limpido del mattino, lassù si intravedono le lance dei soldati a protezione del castello. Siamo al sicuro.
Ci lasciamo trasportare dalla gioia e dalla felicità, che la festa abbia inizio!
Saltelliamo tra le tende bianche e rosse dei cortigiani intenti a preparare il pranzo, viene acceso un fuoco e una coltre di fumo si innalza di fronte a noi. L'aria si riempie dei profumi degli arrosti che girano cuocendo lentamente. Ci sono mercanti di spezie, venditori di pelli, armatori, incantatori di serpenti, artigiani e contadini. Ci avviciniamo incuriositi a un tale che ha portato con sé alcuni gufi, un barbagianni e un allocco.
Provo ad accarezzare il gufo, affondando la mano tra le sue morbide piume. E' bellissimo, il suo sguardo mi ipnotizza. Cerco di distoglierlo, ma accade qualcosa. Sento voci lontane, paiono grida di terrore. Il cielo si oscura, il castello precipita in un clima funesto. Poi mi desto all'improvviso, il tizio che tiene il gufo sul braccio mi chiede se mi sono addormentato. Gli altri ridono intorno a me. Abbozzo un sorriso, ma mi allontano inquieto.

La festa intanto procede nei migliore dei modi, ci aggiriamo incuriositi tra le bancarelle del mercato. Ci sono scope volanti, bacchette magiche, sfere di cristallo, libri di magia, tomi antichi e impolverati con ricette miracolose, teste di drago, spade, archi e frecce, mantelli e indumenti di svariate forme e colori. Salutiamo con piacere un nano nostro amico, Gimli, giunto dalla lontana Terra di Mezzo insieme ad un gruppo di Nani e di Elfi. Fa la sua comparsa anche un gruppo di Hobbit, tra di loro c'è Frodo Baggins. Resto affascinato dalle coloratissime ali di alcune Fate che si muovono leggiadre.
Una coppia di musicisti suona una melodia incantevole, balliamo e saltiamo. Ci viene fame così ci sediamo nell'erba all'ombra delle mura, è mezzogiorno e il sole è piuttosto caldo. Affondiamo i denti in succulenti arrosticini di carne, divoriamo pannocchie abbrustolite e polpette al fiore di sambuco, innaffiando il tutto con caraffe di birra e corni colmi di uno squisito e dolce mosto d'uva. Salutiamo alcuni amici che incontriamo per caso, parliamo con loro, tutto sembra filare liscio. Lo strano presagio avvertito mentre accarezzavo il gufo pare solo un lontano ricordo.
Un saltimbanco fa un chiasso incredibile mentre da sfoggio di tutta la sua particolare abilità canora. Poco in là vedo arrivare il piccolo Harry Potter accompagnato dal suo gigantesco amico Rubeus Hagrid. Molti gli vanno incontro, alcuni gli stringono la mano, altri fanno un cenno con la testa in segno di saluto. Ci sono maghi e streghe di varie contee che sono giunti fin qui per la festa.

In mezzo a tutta questa baldoria nessuno sembra fare caso a una figura inconfondibile. Uno stregone vestito tutto di bianco, con lunghi capelli grigi e un bastone nero in mano. Si avvicina all'ingresso del castello. E' Saruman, lo stregone di Isengard!
Scatto in piedi, vorrei gridare a squarciagola, ma riesco solo a farmi andare di traverso i chicchi anneriti della pannocchia che sto mangiando. Non serve che sia io a gridare. Saruman alza il bastone verso il cielo che all'improvviso si riempie di nubi minacciose, tra tuoni e fulmini. La terra trema, un'orda di Orchi e guerrieri Uruk Hai si scaglia contro la fortezza. E' il fuggi fuggi. Corriamo tutti all'impazzata cercando riparo tra le mura mentre viene sollevato il ponte levatoio. Gli arcieri a difesa del castello si apprestano a scagliare le proprie frecce, mentre gira voce che Aragorn sia nel fossato al di fuori della rocca a guidare un esercito di Elfi e di Cavalieri di Rohan contro la terribile armata nemica. Tutto questo accade in pochi minuti, e molti come noi in preda all'euforia della festa, non si erano nemmeno accorti della terribile e incombente minaccia. Sento un sibilo, poi un altro. I soldati scoccano le frecce che come saette trafiggono decine di Orchi. D'istinto mi tocco le orecchie appuntite per sentire se ci sono ancora! Rumori di spade giungono dal fossato mentre urla di battaglia riecheggiano fino alla valle. I cavalieri assediati dagli Uruk Hai arretrano in un primo tempo, ma poi si ricompattano e riescono a mettere in fuga il nemico.
Il cuore mi si riempie di gioia quando mi pare di intravedere il manto grigio del mago Gandalf. E' proprio lui, ed è venuto in nostro aiuto. I gufi si alzano in volo per poi scendere in picchiata sulle truppe di Saruman, i serpenti balzano sui nemici tra morsi velenosi e abbracci mortali, l'intera rocca pare esplodere tra gli incantesimi scagliati da Gandalf e Saruman.
Ci uniamo alla lotta alzando i nostri ciondoli magici, il tintinnio dei campanelli delle fate stordisce gli Orchi e gli Uruk Hai che vengono trafitti dai nostri soldati. Saruman grida di rabbia e svanisce nel nulla, mentre la sua armata batte in ritirata.

Il sole torna a splendere sulla fortezza, la festa si rianima e tutto torna come prima. Usciamo dalla rocca e riprendiamo la strada verso casa. Che giornata!
Ormai è sera quando affiorano i ricordi della entusiasmante giornata trascorsa al Soncino Fantasy nella meravigliosa Rocca di Soncino, in mezzo a migliaia di appassionati del genere fantasy, del Signore degli Anelli e di Harry Potter, oltre che del costume medievale. Mi spoglio delle vesti elfiche, tolgo le orecchie appuntite, ripongo il ciondolo magico, lavo il corno di ceramica usato come coppa per il vino.
Ma ciò che non potrò mai togliermi di dosso è la passione per tutte quelle creature fantastiche che popolano i miei sogni ed è bello immaginare che possano davvero esistere.

domenica 27 aprile 2014

Pazza Las Vegas!



Entrati nello stato del Nevada, alziamo il volume della radio ascoltando Viva Las Vegas di Elvis Presley, e dopo un paio di ore di viaggio nel deserto scorgiamo all'orizzonte la skyline della più pazza città d'America, Las Vegas!

Il nostro hotel è il Circus Circus, a nord della Las Vegas Boulevard, sul famoso tratto chiamato la Strip. 
L’hotel è enorme, con più di duemila stanze, tre casinò, negozi, ristoranti, una pista per gli acrobati del circo e il più grande parco di divertimenti al coperto, l’Adventuredome, dentro a una cupola rosa. Sicuramente non è il più bell’albergo di Las Vegas essendo uno dei primi aperto negli anni Sessanta, ma l’impatto è forte. Dopo aver faticosamente trovato l’orientamento andiamo subito alla scoperta dell’Adventuredome dove ci facciamo trascinare in un paio delle sue attrazioni, il Canyon Rider e il Rim Runner, rispettivamente le montagne russe con il doppio giro della morte e la discesa lungo un torrente che precipita in una cascata. Passeggiamo tra i casinò, osserviamo lo spettacolo di un’acrobata, la musica delle slot-machine ci travolge… e non siamo ancora usciti dall’hotel! 
  
Poco più tardi ci prepariamo e usciamo sulla Strip, le prime luci sono già accese. Lucky il clown svetta sul piazzale del Circus Circus, mentre a nord si intravedono il Sahara e la maestosa torre dello Stratosphere. Ci incamminiamo mentre dall’asfalto sale il calore di una giornata bollente.
Ci sono 46° a Las Vegas, 35° di notte. Ma se il caldo è opprimente e l’aria pare quella di un forno acceso, non ci scende nemmeno una goccia di sudore perché l’umidità è intorno all’8%, quindi è molto secco.
Sull’altro lato della strada vediamo il Riviera, un altro albergo datato ma pur sempre pieno di fascino con i suoi casinò e la facciata scintillante. 
   
Giungiamo al Fashion Show Small, posto per lo shopping che assomiglia a un ufo visto dall’alto, oltrepassiamo il moderno Wynn fino ad arrivare nella zona più calda della Strip. Qui sorgono maestosi il Venetian, con tanto di campanile di San Marco, Ponte di Rialto e gondole; il TI (Treasure Island) con galeoni e pirati; il Mirage con il giardino tropicale e un vulcano. Poco dopo ci sono il Caesars Palace in stile romano; il francese Paris con la Tour Eiffel e l’Arco di Trionfo; il Flamingo con il famoso fiore al neon rosa e arancio; il Bellagio con un suo piccolo Lago di Como. La città è un tripudio di luci, il traffico impressionante. Molti hotel sono collegati da ponti che attraversano le strade, in alcuni si può passare addirittura da uno all’altro senza neanche uscire. Andiamo subito al TI per assistere al famoso spettacolo Sirens of TI che si tiene ogni sera. La gente si raduna in fretta finché finalmente si accendono le luci intorno al galeone posto nel piccolo lago di fronte all’hotel. Compaiono intrepide ballerine, danzano, cantano e come le sirene cercano di ipnotizzare con il loro canto alcuni pirati che nel frattempo stanno arrivando a bordo di un altro veliero che si muove veramente nel canale. Dopo uno scambio di battute ecco che i pirati aprono il fuoco contro le sirene che tengono tra le loro grinfie uno dei bucanieri ammaliato dal loro fascino. Questi poi tenta di scappare, i cannoni esplodono i colpi tra vere fiammate e nuvole di fumo. Le sirene rispondono al fuoco e i pirati hanno la peggio, il galeone si incendia e si inabissa. Alcuni si tuffano e a nuoto raggiungono le nemiche che in un tripudio di esplosioni e fuochi d’artificio li accolgono cantando tutti insieme. Questa è Las Vegas!


Dopo un giro intorno alla laguna veneta, dove vediamo una sposa scendere da una limousine per il classico matrimonio a Las Vegas, entriamo nel Venetian: è notte ma all’interno sembra giorno, sui soffitti è dipinto un cielo azzurro, tra i negozi scorrono le gondole nei canali. Arriviamo in una piccola Piazza San Marco. Qui a Las Vegas sono proprio esagerati. C’è un po’ di cattivo gusto nel tentativo maniacale di riprodurre le città europee, l’eccesso in tutto qui è di casa. La notte scorre veloce tra casinò e qualche Margarita. All'alba un nuovo giorno ci aspetta.


Fa caldissimo, ma intrepidi decidiamo di vedere Las Vegas anche di giorno. Raggiungiamo in autobus il primo albergo sulla Strip partendo da sud, così da risalire verso gli hotel visti la sera prima. Il Mandalay Bay’s è gigantesco, con palme e statue enormi all’ingresso. Accanto sorge la piramide del Luxor in stile egizio, dove entriamo per un giro nell’atrio maestoso tra sfingi e obelischi. Proseguiamo fino all’Excalibur, un castello medievale con torri bianche ispirato al mondo di Re Artù, e all’incredibile New York New York, con grattacieli come l’Empire State Building e il Chrysler, la Statua della Libertà, le case di Greenwich e Soho e il Ponte di Brooklyn. Altissime montagne russe si avvitano attorno ai grattacieli e anche all’interno dell’hotel. Entriamo facendo un giro tra i quartieri di Manhattan e pranziamo in un locale messicano con un gustoso piatto di chimichanga.   

Proseguiamo attraversando il tunnel al di sopra della Strip ed entriamo al MGM Grand, hotel verde smeraldo ispirato allo studio televisivo MGM di Hollywood. Subito a sinistra scopriamo un ristorante che sembra una giungla, con serpenti, coccodrilli, elefanti… finti. C’è anche la pioggia che scende a ridosso dei clienti seduti ai tavoli. Ci sono grossi acquari con pesci tropicali e poco più avanti il Lion Habitat, con due leonesse… vere! C’è anche un leone che purtroppo non abbiamo visto, forse era stanco di tutti i curiosi che come noi sbirciavano dai vetri. Ci incamminiamo sotto il sole cocente di Las Vegas passando di fronte al lussuoso Montecarlo e poi davanti allo Showcase Mall, un edificio con una grande sala di videogiochi e un’enorme bottiglia di Coca Cola sulla facciata. Passiamo davanti al Planet Hollywood dove Elvis Presley sposò Priscilla nel 1967, al negozio delle Harley Davidson e all’Hard Rock Cafè.
     
Ripassiamo davanti al Paris e al Flamingo, ci fermiamo di fronte all’Imperial Palace, in stile asiatico con auto lussuose in mostra. Nei pressi del Venetian, accaldati e sfiniti, prendiamo l’autobus per raggiungere lo Stratosphere a nord della Strip, dopo il Sahara, hotel in stile africano. La torre è alta 350 metri, lassù ci sono montagne russe e attrazioni per chi non soffre di vertigini! 

La sera il traffico è intenso, allora dopo aver preso l’autobus scendiamo al Mirage e proseguiamo a piedi. Raggiungiamo il Caesars Palace dove entriamo a passeggiare tra statue e fontane romane sotto un cielo azzurro rigorosamente finto. Attoniti ci imbattiamo in un Cavallo di Troia gigantesco che pare essersi smarrito… a Roma? E che dire delle statue greche che sembrano manichini che lottano tra draghi e palle di fuoco? In grossi acquari razze e pesci tropicali nuotano tra anfore e mezzi busti di statue romane. Anche il Bellagio ci lascia perplessi: il soffitto è decorato con grossi fiori in vetro di Murano, in una sala sorge una specie di giardino con giostre e annaffiatoi giganti, tra luci, colori e giochi d’acqua. Tutto molto lussuoso e di scarsa finezza.

Degno della sua fama è invece lo spettacolo delle fontane che si tiene nel lago del Bellagio, circa ogni quarto d’ora. Dura cinque minuti, i getti d’acqua danzano leggeri a ritmo di musica di fronte ad un’autentica folla. 

Dopo un giro tra i vicoli francesi all’interno del Paris, passiamo per il casinò del moderno Bally’s che è collegato a quello parigino, e usciamo attraverso un tunnel con luci al neon dai diversi colori. Salutiamo la pazza vita di questa città del divertimento eccessivo e del lusso sfrenato. Per concludere alla grande giochiamo alle slot-machine e ci perdiamo tra i tavoli da gioco dei casinò. Assordati dal frastuono, storditi dalle migliaia di luci, inebriati dal profumo della vita sfrenata di Las Vegas, ci corichiamo in piena notte.

All’alba bisogna ripartire, per una nuova avventura americana.

mercoledì 23 aprile 2014

Recensione del libro "Lucifer, la stella del mattino" di Elena Magnani


 "Forse un giorno nevicherà all'inferno..." 
In queste parole, tratte da una frase del primo romanzo di Elena Magnani Lucifer, la stella del mattino (Europa Edizioni) si concentra l'essenza di un fantasy moderno, ma dai riferimenti biblici. Creature angeliche si scontrano in quell'eterna lotta tra il Bene e il Male che si protrae da millenni. Questa disputa si rivelerà cruenta e spaventosa agli occhi dei protagonisti che ben presto vedranno crollare le proprie certezze di una vita vissuta fino ad allora nell'inconsapevolezza. Il romanzo è avvincente fin dalle prime battute, ogni pagina è ricca di adrenalina, carica di quella tensione che invoglia a proseguire nella lettura. Bastano poche righe per sentirsi membri del gruppo di amici che si avventura in un bosco dai ricordi maledetti. Con loro si vivono le stesse emozioni, si nutrono gli stessi sentimenti: la tristezza della solitudine e la felicità dello stare insieme, la paura dell'ignoto e di una realtà nuova e terrificante, ma anche la serenità data dagli affetti e dall'amicizia. Sono i sentimenti come l'amore che sboccia tra le righe che scaldano il cuore del lettore durante le gelide dispute di strani esseri dall'aspetto angelico, ma dalla forza demoniaca. L'odio e la rabbia soccombono per poi riaffiorare in un altalenante susseguirsi di colpi di scena. Se un giorno nevicherà all'inferno, allora vorrà dire che forse l'amore e la pace avranno trionfato tra le creature angeliche di Elena, e chissà, magari anche in quel mondo che noi definiamo reale, ma che tuttavia non sappiamo cosa possa davvero nascondere.

lunedì 21 aprile 2014

Lo zoo della paura



Quella notte l’aria era molto calda, i cuccioli erano nati da poco e la madre li accudiva gelosamente. Il capofamiglia si aggirava nervoso attorno ai propri piccoli, aveva fiutato un pericolo in agguato. 
I bracconieri li stavano osservando da giorni e ora era giunto il momento di mettere in atto il piano. Erano pronti a tutto pur di avere i cuccioli. Al calar del sole il commando composto da quattro bianchi e da una ventina di guerrieri zulù era pronto a entrare in azione. 
Il leone si era addormentato, il caldo opprimente e la tensione della giornata lo avevano sfinito. La leonessa era molto debole e riposava accanto ai suoi cinque cuccioli che tremavano nonostante la calura. La notte africana calava in un’atmosfera magica, la savana riecheggiava dei versi degli animali irrequieti. Qualcuno stava turbando il loro riposo, ombre furtive si avvicinavano lentamente strisciando nell’erba alta e ingiallita dal sole cocente di quei giorni.
Il capo della banda, un uomo di mezz’età con gli occhiali e la barba bianca, era pronto a dare il segnale. Gli uomini erano armati di fucili e coltelli, poco distante un grosso autocarro teneva il motore e i fari spenti in attesa di partire al segnale che sarebbe giunto via radio. Gli zulù dovevano attirare il leone allontanandolo dai cuccioli mentre due cecchini, appostati nelle vicinanze, sugli alberi, erano pronti a fare fuoco. In quei terribili istanti la savana era piombata nel silenzio, gli animali si erano accorti degli intrusi e la paura li aveva zittiti. Ma questa calma improvvisa aveva destato il leone e la leonessa, che ora ruggivano nervosamente. Il leone si era alzato, lentamente era sbucato dalle rocce che nascondevano la sua tana.

L’uomo dalla barba bianca diede il via alla caccia, sparò un razzo rosso verso est, illuminando il gruppo di guerrieri zulù che nel chiarore parevano spettri. Danzavano e urlavano canti di morte rivolti al re della savana. Il leone ruggì, la rabbia e la paura lo spinsero a rincorrere quelle ombre. Anche la leonessa ruggiva. I cuccioli si erano svegliati spaventati e cercavano riparo vicino alla madre. Ma un proiettile sibilò improvvisamente sferzando l’aria calda e raggiunse la nuca della leonessa, uccidendola all’istante. Il leone corse sempre più veloce mentre gli zulù cercavano di accerchiarlo e colpirlo con le lance. Il secondo cecchino appostato poco più in là, verso i guerrieri, sparò un colpo, ma mancò il bersaglio. Il leone, accecato dall’ira, spiccò un balzo e con un morso afferrò alla gola un guerriero spintosi troppo vicino. Questi non ebbe nemmeno il tempo di gridare, il re della savana gli aveva squarciato la gola. Gli altri terrorizzati e inorriditi dall’orripilante spettacolo scagliarono le lance verso la belva e alcuni lo colpirono ferendolo seriamente. Il leone si accasciò, cercò di rialzarsi, ma il cecchino non fallì il secondo colpo e lo centrò dritto al petto. L’animale, vicino alla morte, respirò affannosamente mentre i suoi occhi andavano lentamente chiudendosi. Udì le grida di esultanza dei suoi assassini quando, esalando l’ultimo respiro, pensò ai suoi cuccioli e alla leonessa con cui aveva trascorso gran parte della sua vita. Intanto l’uomo dalla barba bianca, insieme ad altri tre cacciatori, aveva accerchiato i giovani leoni e li aveva catturati con una rete metallica.

Poco dopo due fari illuminavano la notte della savana che lentamente tornava alla normalità, gli animali comunicavano tra loro domandandosi cosa fosse accaduto al re e alla sua famiglia.
Il ruggito del motore del camion fece trasalire gli zulù che si tranquillizzarono solamente nel vedere il corpo del leone ancora accasciato a terra. I cuccioli vennero rinchiusi in una gabbia, e una volta caricati sul camion, furono portati lontano dal loro habitat. Avevano l’aria triste e l’aspetto impaurito, tranne il più piccolo che continuava a ruggire e a mostrare i denti. Il vecchio con la barba bianca lo colpì con un bastone ferendolo lievemente e il cucciolo di rimando tentò di morderlo ad un braccio. L’uomo lo guardò negli occhi sghignazzando. Decise che quel cucciolo così vendicativo l’avrebbe portato con sé. 

Dieci anni dopo, Safari.

Il grande giorno era finalmente arrivato. Il professor Walzer, noto studioso di storia naturale nonché direttore del museo zoologico di Navone, si apprestava a tagliare il nastro al cospetto di un folto gruppo di scienziati e politici giunti da altre città per assistere all’inaugurazione del parco. Al pubblico sarebbe stato aperto il giorno successivo.
Safari era sempre stato il “sogno nel cassetto” del professor Walzer che da anni si dedicava giorno e notte alla realizzazione di questo parco. Uno zoo richiedeva, oltre a un enorme sforzo economico, anche una grande professionalità nell’ospitare animali di varie specie. Il professore aveva assunto collaboratori esperti, veterinari e scienziati, laureatisi nelle migliori università, per realizzare quest’impianto. Gli animali erano stati comprati dagli zoo di tutto il mondo e in pochi mesi Safari contava ben centocinquanta ospiti. L’obiettivo del professore era di arrivare a quota trecento esemplari, ma il suo vero sogno era quello di avere il maggior numero di specie possibili. A giugno, nel giorno dell’apertura del parco, gli illustri ospiti potevano osservare animali provenienti da tutto il mondo: antilopi, leoni, tigri, orsi, bisonti, rinoceronti, elefanti, ippopotami, giraffe, lupi, cammelli, scimmie di svariate specie. Fenicotteri, ibis, marabù, pellicani, avvoltoi, cicogne. Rettili e serpenti più o meno velenosi, tartarughe giganti, alligatori e caimani. Era in fase di allestimento anche l’enorme acquario che poteva ospitare delfini, squali, foche, leoni marini, pinguini e innumerevoli specie di pesci e anfibi. Il tutto realizzato in una enorme area verde dove ogni animale viveva nel suo habitat perfettamente ricreato dagli scienziati del parco. Diviso in aree geografiche, era incredibile come in un solo giorno ci si potesse inoltrare nella savana africana, nella giungla sudasiatica e ritrovarsi infine tra le montagne del Nordamerica, nei ghiacci del Polo Sud e nel deserto del Sahara.
Ma la vera sorpresa di Safari, ciò che lo rendeva unico al mondo, era il fatto che questi animali erano in assoluta libertà. I visitatori potevano camminare tranquillamente nel parco senza timore di essere aggrediti. La scoperta sensazionale del professor Walzer risaliva a tre anni prima. Aveva inseguito questo sogno a lungo e infine ci era riuscito. Grazie agli studi effettuati su alcuni animali aveva scoperto che esisteva un siero capace di sedare l’aggressività dovuta alla paura, alla fame o al semplice istinto di sopravvivenza. Distribuendo questo siero nelle razioni di cibo giornaliere, gli animali rimanevano assolutamente tranquilli e innocui. La vera novità di Safari era la mancanza di gabbie o recinzioni, ciascuno poteva camminare attraverso il parco accarezzando animali ritenuti da sempre pericolosi. Ovviamente all’inizio non sarebbe stato facile, molti erano scettici e non mancavano le critiche.
Ma il successo arrivò prima di quanto il professor Walzer avesse osato sperare. Il giorno dell’inaugurazione Walzer venne osannato dal folto gruppo di scienziati e politici in visita al parco. Dopo nemmeno un mese tutti parlavano di quel luogo incredibile e ogni giorno si formavano lunghe code di visitatori e curiosi che si accalcavano in attesa di poter entrare a stretto contatto con gli animali di Safari.

Passò un anno dall’inaugurazione. Il professor Walzer divenne famoso in tutto il mondo, gli affari andavano a gonfie vele grazie allo zoo che registrava incassi da capogiro. L’afflusso di gente era tale che i visitatori per entrare dovevano prenotare il biglietto settimane prima. 
Il mattino del primo anniversario di Safari il personale aveva allestito al meglio il parco organizzando una festa degna dei grandi eventi. Erano stati invitati anche personaggi importanti del mondo dello spettacolo e della politica. Tutto si svolse in grande stile, Safari era stracolmo di gente entusiasta e il professor Walzer si sentiva al settimo cielo. 
Al tramonto lo zoo venne chiuso come ogni giorno dai due guardiani di turno, gli animali si addormentarono e infine il silenzio della notte calò sul parco.

Il professore rincasò entusiasta, ma sfinito. Tuttavia continuava a pensare ai suoi animali che stranamente verso sera gli erano parsi piuttosto irrequieti. Aveva deciso di aumentare la dose del siero da somministrare nella razione che sarebbe stata distribuita il mattino seguente. La giornata era stata intensa, la festa aveva avuto il successo sperato, ma finalmente era giunto il momento del meritato riposo. Si era infilato nel letto della sua casa nuova fatta costruire a pochi chilometri dal parco. La stanchezza aveva preso il sopravvento e in pochi minuti il professore si era addormentato beatamente. Non si era nemmeno rammentato dell’altro avvenimento tanto atteso. All’alba del mattino seguente infatti ci sarebbe stata l’eclissi di sole e lui voleva assistervi dallo zoo anche perché lo incuriosiva la reazione che avrebbero potuto avere gli animali. Ma sprofondato nel sonno se n’era completamente dimenticato.

Alle prime luci del sole due figure si avvicinarono all’ingresso del parco. Nel giorno di chiusura settimanale, imposto dal professore per la manutenzione del parco e per il controllo degli animali, Tobia e Ramon, due collaboratori di Walzer, avevano deciso di recarsi per primi ad assistere all’eclissi insieme al professore.
«Oggi il sole sorge per tramontare dopo un paio d’ore! Strano, eh?» esclamò Tobia.
«Già! E poi il cielo è limpido. Sarà uno spettacolo assistervi!» rispose Ramon.
«Pensi che il professore sia già arrivato?» chiese l’altro.
«Beh, conoscendolo direi di sì. Tuttavia l’eclissi non avverrà prima delle sette.»
Mentre chiacchieravano Tobia estrasse le chiavi e aprì il cancello. 
«Walzer non è ancora arrivato, non vedo luci accese nel suo ufficio» disse Tobia guardando verso il museo.
«Strano… era così ansioso. Ma non ne abbiamo più parlato negli ultimi giorni per via della festa dell’anniversario. Forse se n’è scordato!»
«No, impossibile. Sarà solo in ritardo. Ieri quando sono uscito da qui era ancora circondato dai giornalisti!»
«Ah! Ah! E dire che non amava le conferenze. Ora non perde un’intervista pur di parlare del suo miracolo!»
I due richiusero il cancello alle loro spalle e fecero un cenno di saluto verso uno dei guardiani notturni che si era avvicinato vedendoli entrare.
«Ehi! Come va ragazzi?» domandò quest’ultimo.
«Alla grande!» rispose Tobia.
«Io invece sono convinto di essere ancora nel letto! Che sonno!» disse sbadigliando sonoramente Ramon.
«Tutto a posto qui? Le bestie hanno dormito?» chiese Tobia al guardiano, Ismael, assunto da poco al parco.
«Come agnellini! Di notte cala un silenzio surreale, è incredibile. All’inizio avevo un po’ paura, tutte quelle belve… ma adesso mi ci sono abituato. Direi che lavorare qui è quasi monotono!»
«La scienza! Fa miracoli!» disse Ramon ancora sbadigliando.
I tre si salutarono. Ismael si recò verso l’uscita, il suo turno finiva alle sei. I due scienziati si diressero verso il centro del parco, dove avrebbero installato il telescopio per vedere l’andamento dell’eclissi. 

«Io vado a telefonare al professore, non può perdersi lo spettacolo» disse Ramon.
«Va bene! Intanto io posiziono l’attrezzatura in cima alla collina!» gli rispose il collega.
I due si separarono sorridendo, non avevano la minima idea di cosa sarebbe successo di lì a poco.
Ramon svoltò a destra verso il museo mentre cercava tra le tasche dei pantaloni la tessera magnetica per aprire la porta principale. Tobia invece proseguì lungo il sentiero, mentre improvvisamente un cinghiale gli attraversò la strada. Non si spaventò perché sapeva che gli animali del parco non erano pericolosi e lo guardò allontanarsi verso la fitta boscaglia. 
«Guarda come corre!» ridacchiò subito dopo, giungendo sulla sommità della collina. Aveva già preparato l’attrezzatura il giorno precedente e ora non doveva far altro che installarla completamente e mettere in funzione il telescopio. 
Improvvisamente con la coda dell’occhio vide qualcosa muoversi alla sua destra, si voltò e il cuore gli si fermò in gola. Nella grotta ricavata vicino alla collina un grosso leone lo stava fissando, circondato da una mezza dozzina di leonesse.
«Che ci fa il Re così vicino all’uscita del parco?» borbottò. Gli animali erano innocui, ma ognuno aveva il suo territorio nello zoo, da dove non si allontanava mai. Ora invece il Re, il leone più grosso del parco, si era allontanato con le sue compagne dalla savana, la vasta area ricreata interamente per loro.
Il leone sembrava scrutarlo minaccioso.
«Ehi, via di qui! Lo sai che non puoi stare quaggiù? Ma non ti hanno dato il siero…» 
In un lampo, al ruggito del Re, le leonesse fecero un balzo in avanti. Tobia non ebbe nemmeno il tempo di capire cosa stesse accadendo che i felini gli piombarono addosso facendolo cadere a terra. Il suo corpo venne sbranato dai denti acuminati delle femmine del leone. Il Re restò in disparte ad assistere allo scempio. Poi, osservando il sole che andava lentamente scurendosi, ruggì.

Ramon intanto aveva trovato la tessera e aveva appena chiuso il portone quando gli parve di udire un rumore in lontananza, simile a un ruggito.
«Bah… sarà stata la serratura della porta» commentò senza convinzione.
Non udì le urla di terrore del collega, straziato dalle bestie.
Lo scienziato raggiunse l’ufficio di Walzer e quando fece per comporre il numero di telefono del professore si bloccò, il volto rilassato si tramutò improvvisamente in una maschera impaurita, con lo sguardo perso nel vuoto e la bocca spalancata. Dalla finestra di fronte a sé Ramon vide ciò che mai avrebbe voluto vedere in vita sua. Gli animali del parco si stavano radunando, dirigendosi tutti insieme verso la collina.
«Ma che diavolo… devo chiamare Walzer! Subito!» gridò.
Ramon sollevò il telefono dalla scrivania del professore avvicinandosi alla finestra, compose il numero mentre le dita cominciarono a tremare per la paura, quello che stava accadendo era assurdo. Dall’altra parte della cornetta rispose una voce debole e assonnata.
«Pronto? Chi è che chiama a quest’ora…»
Ma Ramon non ebbe nemmeno il tempo di parlare. Udì alcuni passi felpati alle proprie spalle, il fetore lo investì in un istante. Si voltò in preda al terrore, il grosso felino saltato sulla scrivania digrignò i denti. Il suo respiro era caldo e affannoso. Ramon gridò quando la grossa tigre balzò in avanti scaraventandolo a terra. 

«Pronto? Ma che succede? Chi è?» gridò il professore destatosi improvvisamente nell’udire rumori spaventosi e urla dall’altro capo del telefono. Guardò l’orologio e imprecò.
«Le sette meno un quarto? No! Sono in ritardo! Mi perderò l’eclissi…»
Con un balzo scese dal letto e in pochi minuti si vestì e uscì di casa dimenticandosi di allacciarsi i bottoni della giacca. Era spettinato e gli occhi ancora semichiusi dal sonno. Accese il fuoristrada spingendolo a folle velocità verso il parco. Nella testa continuavano a rimbombare quelle grida udite al telefono.
«È successo qualcosa… me lo sento!» borbottava in continuazione.
Arrivato finalmente davanti al cancello dello zoo suonò il clacson più volte, ma nessuno gli aprì.
«Impossibile che non ci sia nessuno! Se i guardiani notturni sono già andati via devono esserci per forza Tobia e Ramon e gli altri guardiani di turno. Eravamo d’accordo di trovarci qui per l’eclissi!»
Suonò ancora.
«Aprite!» gridò il professore scendendo dalla vettura impolverata.
Estrasse il mazzo di chiavi dalla tasca della giacca cercando disperatamente la chiave giusta e dopo interminabili secondi la trovò. Aprì il cancello e corse dentro, il cuore galoppava all’impazzata e l’ansia lo attanagliava. Temeva che qualcosa di terribile fosse davvero accaduto. Non c’era traccia dei guardiani o dei suoi collaboratori.
Walzer raggiunse l’entrata del museo, ma appena dentro si fermò sbigottito. Decine di animali si stavano radunando attorno alla collina dove lui stesso avrebbe dovuto recarsi con Tobia e Ramon per osservare l’eclissi. In cima alla collina c’era lui, il suo preferito. L’aveva catturato personalmente in Africa alcuni anni prima, quand’era ancora un cucciolo. Gli addetti del parco lo avevano soprannominato il Re, perché lui sarebbe stato un vero re della savana se non fosse stato catturato. Suo padre era leggendario tra le tribù africane, ma era perito sotto i colpi dei fucili dei bracconieri. Quel leoncino catturato da piccolo ora era cresciuto, lontano dai suoi fratelli venduti ad altri zoo. Quando era arrivato a Safari era impaurito, ma anche molto determinato, non sopportava chi lo avvicinava e ruggiva continuamente. 
Il professore lo osservò meravigliato, innanzi a sé andava compiendosi qualcosa di straordinario. Animali di tutte le specie sembravano inchinarsi al leone, mentre emettevano versi assordanti. Il suo leone si stava comportando da vero re.
Walzer indietreggiò lentamente cercando la porta d’ingresso del museo. I suoi occhi continuavano a fissare il leone che si era accorto della sua presenza. Il professore ebbe un fremito di paura, il sangue gli si gelò nelle vene quando il leone ruggì così forte che gli altri animali tacquero all’istante. 
«Non è possibile…» bofonchiava Walzer terrorizzato e incredulo.
Si voltò di scatto ed entrò correndo nel museo cercando di raggiungere il suo ufficio. Doveva chiamare aiuto, gli serviva un telefono. Ma una volta dentro l’edificio si immobilizzò all’istante.
«Anche ai ragazzi… anche a loro serviva il telefono…» pensò. Cercò l’interruttore della luce ancora spenta e i neon si accesero con il loro lento ronzio. Rimase sbigottito, il museo era tutto sottosopra. Raggiunto il suo ufficio gridò di terrore. Il sangue era dappertutto, una lunga scia rossa guidò il suo sguardo fino all’esterno, dove intravide un corpo umano dilaniato. Walzer si sentì svenire, vomitò e cadde a terra. Gli mancava il fiato.
«Non può essere…» bisbigliò «il mio sogno… distrutto!»
Il silenzio piombò sul parco insieme alla semioscurità dovuta all’eclisse. 
«Il siero… non funziona più…» lamentava il professore mentre tentava di rialzarsi. Ma i suoi pensieri erano altri. Sapeva fin dall’inizio che sarebbe arrivato il giorno in cui quel leoncino agguerrito, strappato anni prima alla sua terra, gliel’avrebbe fatta pagare. Lo aveva capito quando lo aveva guardato dritto negli occhi il giorno della cattura nella savana. Walzer aveva riso perché aveva sentito in quello sguardo il peso dell’odio del cucciolo nei suoi confronti. Il leoncino piangeva mentre suo padre moriva, lui l’aveva preso in braccio, ma aveva ricevuto un graffio dai suoi piccoli artigli. Walzer aveva gridato per il dolore e lo aveva gettato a terra, tenendolo sotto il pesante scarpone. Il suo sguardo aveva incrociato nuovamente gli occhi scuri del cucciolo di leone che mostrava i piccoli denti affilati. Il silenzio era piombato nell’intera savana e Walzer aveva percepito la sete di vendetta dell’animale. Era confuso, ma gli era piaciuto quel cucciolo così aggressivo e aveva deciso di portarlo nel suo zoo. Il giorno successivo Walzer, intento a dare la caccia ad altri animali da portare con sé, non si era nemmeno accorto che il sole si era oscurato quasi totalmente. Il leoncino invece aveva alzato lo sguardo verso il cielo e ne era rimasto affascinato.
Ora la nuova eclissi si andava compiendo anche sopra lo zoo di Safari, ma si stavano invertendo le parti dei protagonisti. Il Re era cresciuto in quegli anni e aveva quasi completamente dimenticato la sua famiglia e la sua terra. Il siero oscurava i suoi pensieri e la sua mente non era in grado di portare alla luce ricordi così dolorosi. La vita nel parco scorreva nel più ovattato dei silenzi, in un’estasi meravigliosa in cui gli animali non riconoscevano se stessi. Ma quando all’alba di quel giorno il sole si era oscurato, gli occhi spenti e freddi del leone si erano improvvisamente accesi, brillando di una luce intensa, piena di vita. Il Re aveva ripreso conoscenza, i ricordi erano fluiti come un fiume in piena verso la sua mente, che ne era stata completamente invasa. Il leone aveva rapidamente percorso a ritroso tutti gli avvenimenti della sua vita, dai maltrattamenti subiti da parte degli addetti del parco, alle somministrazioni quotidiane di quel siero che oscurava i suoi pensieri e frenava il suo istinto, alla savana e a quel giorno in cui l’uomo dalla barba bianca aveva sterminato i suoi genitori e catturato lui e i suoi fratelli. 
Walzer strisciò sul pavimento imbrattato di sangue, sapeva di aver esagerato con le dosi del siero di sua invenzione. Certo non poteva immaginare che quella sostanza non avrebbe avuto effetto durante l’eclissi. L’immagine del sole annerito stampata nella mente del leone era così forte da valicare le barriere imposte dal siero. Il leone aveva immediatamente associato l’eclissi al giorno in cui era stato catturato. Si era risvegliato e il suo ruggito aveva scosso gli altri animali del parco che lentamente avevano ripreso i sensi. Il re della savana era pronto a prendere il comando del parco e a compiere la sua terribile vendetta.
Tutti gli animali si radunarono attorno al leone. Walzer sedeva rannicchiato sotto la finestra del suo ufficio che dava verso la collina. Piangeva terrorizzato. Il leone ruggì esortando gli animali dello zoo a muoversi verso il museo. Il buio calò nel parco. In pochi istanti il professore venne trascinato al suo cospetto, in cima alla collina. Walzer tremava come un fuscello, in ginocchio di fronte al re. Venne spinto all’interno di una grotta mentre tutti gli animali del parco iniziarono a sfilare davanti a lui, come se fossero diventati loro stessi gli spettatori di quello zoo che li aveva sottratti al loro mondo. Walzer era rimasto intrappolato nel suo stesso gioco, prigioniero di quel sogno trasformatosi in incubo. Ora era lui a essere braccato, era lui a essere sottratto alla propria vita.
Il sole ricomparve lentamente fino a splendere di nuovo. Walzer rimase intrappolato nella grotta finché tutti gli animali del parco passarono di fronte a lui soffermandosi a contemplarlo pietosamente. Qualcuno ruggiva al suo cospetto, qualche altro digrignava i denti, molti erano tentati dalla sete di vendetta, ma rispettavano la decisione del Re che aveva scelto di umiliare il loro carnefice e trasformare il direttore dello zoo nell’unico ospite rimasto.
Gli animali si diressero verso l’uscita e si sparpagliarono nelle foreste, ma non ritrovarono il proprio habitat e molti morirono. 

La notizia della disastrosa conclusione dell’esistenza di Safari fece il giro del mondo. Il professor Walzer venne interrogato a lungo sull’accaduto e quando infine confessò di aver strappato molti animali dalle riserve in cui vivevano, di averli maltrattati e di aver somministrato loro dosi eccessive di sieri non legalmente riconosciuti, venne ritenuto responsabile del comportamento aggressivo degli animali e della morte dei due scienziati.

Ci vollero settimane per recuperare gli animali fuggiti dal parco. In seguito questi furono condotti in nuove strutture. Solo il leone più grosso, il Re, fu riportato nella savana, su richiesta scritta del professore, che venne trovato impiccato nella propria cella pochi mesi dopo.


mercoledì 9 aprile 2014

L'infinito silenzio, il Grand Canyon e la Monument Valley


Monument Valley


Entrando in Arizona fanno la loro comparsa i famosi cactus Saguaro, i più grandi al mondo!  La temperatura è di 107°F, 46° C! Il caldo è opprimente e il sole scotta. Ci fermiamo per alcune foto ai cactus che crescono a centinaia nel deserto dell’Arizona. Sono alti fino a 15 metri; quando crescono hanno solo il tronco centrale, dopo 75 anni nasce il primo ramo e ogni dieci i rami successivi. Sono veramente maestosi. 




Ripresa la Interstate Highway 17 raggiungiamo il Montezuma Castle National Monument, un pueblo risalente al 1100, insediamento degli antichi indiani Sinagua. Incastonato nella montagna assomiglia a una fortezza. Alcuni condor neri volano nel cielo mentre li osserviamo sotto il sole cocente. Lasciato il Montezuma Castle la strada comincia a salire, il paesaggio cambia radicalmente e i cactus scompaiono a causa dell’altitudine. Le montagne sono di roccia rossa e ben presto ci addentriamo in uno dei paesaggi più spettacolari del West, Sedona e l’Oak Creek Canyon. Le montagne rosse sono incantevoli, richiamano subito i film Western che sono stati girati in queste terre. La cittadina di Sedona ha conservato l’aspetto e lo stile del paese dei cowboy, anche se ovviamente in chiave moderna. Pranziamo con un Buffalo Cheeseburgher al Cowboy Club, uno dei ristoranti lungo la strada che attraversa Sedona. Ci sono negozi con manufatti indiani e souvenir per turisti. In uno di questi si possono ammirare le fotografie dei film girati qui negli anni Cinquanta.


Nel pomeriggio ripartiamo attraversando la Coconino National Forest, passando vicino a Flagstaff. Arriviamo così al sospirato Grand Canyon, lungo il versante sud, il South Rim, nel Grand Canyon National Park. Lo spettacolo è impagabile. Siamo sull’altopiano del Colorado, ad un’altitudine di 2170 metri, il sole è caldo e ci sono 30°.La vastità del Grand Canyon ci cattura all’istante. Gli scoiattoli giocano a rincorrersi mentre pochi metri sotto di noi un condor appollaiato sul dirupo pare godersi in silenzio la magnificenza di questo spettacolo della natura. Ci incamminiamo lungo il sentiero e in pochi attimi abbandoniamo il Grand Canyon Lodge, rifugio colmo di turisti e punto di partenza noto come Bright Angel Point, e ci ritroviamo soli al cospetto del canyon. Alberi dalle forme bizzarre scolpite dal vento paiono sospesi nel vuoto, sullo sfondo gli strati dai diversi colori delle rocce che testimoniano le varie ere geologiche del Grand Canyon. Il cielo è limpido e il vento soffia costantemente alimentando il fumo di un incendio che scorgiamo all’orizzonte.
Il tempo sfugge veloce ed è già ora di rientrare. Le rocce si accendono di un rosso fuoco mentre all’orizzonte comincia a imbrunire. Ci fermiamo in un antico rudere in stile adobe dal nome Hopi House dove compriamo un’acchiappasogni degli indiani Hopi. L’allontanamento dal Grand Canyon ha già il sapore della nostalgia, ma allevia sapere che si ritornerà il mattino seguente. Raggiungiamo in pochi minuti Tusayan, dove alloggiamo in un motel da incubo. La camera non è delle migliori, ma la cosa più inquietante, oltre alla luce del neon rosso in un bagno minuscolo, è la vista dalla finestra. Il campo a ridosso del motel è adibito a cimitero delle automobili. Pick-up abbandonati come quelli utilizzati nei film del terrore, automobili arrugginite senza finestrini, motociclette avvolte dalle sterpaglie. Ci guardiamo spauriti e abbozziamo un sorriso per alleviare la tensione. Forse è meglio chiudersi dentro. Sbarriamo la porta e ci infiliamo nel letto, sotto le coperte, anzi sotto il letto portandoci dietro le coperte. In realtà ci scherziamo su e la sera usciamo indossando una felpa e un giubbotto, fa freddo di notte. Il vicino cinema “I-Max” (sponsorizzato dalla National Geographic) ha uno schermo enorme dove viene proiettato ogni sera un film-documentario sull’evoluzione della vita nel Grand Canyon, dalle antiche popolazioni indiane all’arrivo degli spagnoli e dei cercatori d’oro. Lo schermo così grande trasmette emozioni molto forti perché pare di volare a bordo di un elicottero che si addentra nelle profondità del canyon. Ci lasciamo catturare dallo spettacolo e voliamo come le aquile per circa un paio d’ore. Il ritorno al motel è veloce, vorremmo fare qualcosa, andare in un pub, divertirci un po’, ma a Tusayan non c’è un granché da fare, se non andare a dormire per potersi alzare freschi e riposati il mattino seguente, pronti a rivivere le emozioni che solo il Grand Canyon sa regalare. Questo a patto di riuscire a prendere sonno nascosti sotto il letto... 


Di buon mattino torniamo di corsa al Grand Canyon, stavolta però in un altro punto d’osservazione, sempre sul South Rim, il Desert View Point, a 2267 metri. Da qui vediamo il fiume Colorado che attraversa le pareti scavate nel canyon, laggiù in fondo, così lontano che pare un rigagnolo. Con un monocolo riusciamo a vedere bene le rapide viste nel film della sera precedente. Affacciati a questa suggestiva terrazza ascoltiamo un silenzio mai udito prima, non percepiamo alcun tipo di rumore provenire dalla vastità del Grand Canyon. Chi non è stato qui non può capire effettivamente il vero significato della parola “silenzio”. Osservare l’infinito senza il minimo rumore, provare la sensazione di trovarsi in un luogo completamente ovattato, privo di contatti con il resto del mondo. Ne resti come ipnotizzato, da farti girare la testa e perdere l’equilibrio. Sto scherzando, a picco sui dirupi è meglio rimanere ben saldi a qualcosa prima di precipitare nel vuoto.
Saliamo sull’antica torre in pietra adibita a negozio di souvenir dove si possono vedere alcune pareti con dipinti degli indiani Hopi. Poi purtroppo arriva il triste momento del commiato da uno dei luoghi più belli del mondo. Speriamo si possa trattare di un arrivederci, per tornare presto in questo posto incantevole.


Poco dopo siamo di nuovo in viaggio verso il Little Colorado Canyon, un canyon spettacolare creatosi per l’erosione del fiume Little Colorado. Entriamo nella Riserva degli Indiani Navajo e successivamente nel Painted Desert, il deserto dipinto, chiamato così per la continua mutazione di forme e colori del paesaggio. La Highway 160 corre veloce nelle distese infinite, qua e là alcuni villaggi abitati esclusivamente dai Navajo. Oltrepassiamo una miniera di carbone e passiamo accanto alla cittadina di Kayenta, uno dei pochi centri abitati da indiani benestanti. I Navajo infatti sono una popolazione povera con un alto tasso di disoccupazione e in passato anche di alcolismo. Ora infatti vige il divieto di vendere e consumare alcolici in tutta la riserva. Dopo Kayenta svoltiamo a sinistra sulla Highway 163 e in lontananza fanno la loro comparsa alcune sagome rocciose. Il cuore batte forte, ascoltiamo canzoni indiane mentre entriamo nello stato dello Utah, e quando il panorama prende decisamente forma capiamo di essere finalmente arrivati nella stupenda Monument Valley. Le montagne rosse che hanno fatto da sfondo ai film western di John Ford (come “Ombre Rosse” o “Sentieri Selvaggi”) si stagliano di fronte a noi. Giungiamo al Gouldings Lodge, dove si gode di una vista incredibile sulle tre montagne rosse che vengono usate come sfondo del desktop sui computer o nei set pubblicitari della Marlboro: il Left Mitten, il Right Mitten e il Merrick Butte. 


Il modo migliore per visitare la Monument Valley è sicuramente quello di addentrarsi lungo la strada sterrata che la attraversa a bordo delle jeep guidate dagli indiani Navajo. Sicuramente un’escursione per turisti, ma di notevole efficacia. La nostra carovana, composta da quattro fuoristrada, si inoltra tra i giganti rossi, la polvere è dappertutto, il sole scotta e ci sono 32°, nonostante siamo sempre a circa 2000 metri. Il tour nella valle è emozionante. Ci fermiamo più volte per addentrarci anche a piedi e scattare diverse fotografie ai luoghi migliori, dalle Three Sisters al John Ford’s Point. La pausa per il pranzo consiste in una pizza con fagioli, olive e insalata preparata dai Navajo, non eccellente ma commestibile. Ciò che l’ha resa davvero unica è stato il fatto di mangiarla a ridosso delle formazioni rocciose della Monument Valley, laggiù, lontano dal mondo. L’unico rammarico invece è quello di non aver visto nemmeno un costume tradizionale. Solo qualche bancarella di artigianato locale. I Navajo sono stati definiti come un popolo depresso e forse è vero. Se si pensa che un tempo tutto questo enorme territorio era loro se ne può intuire il motivo. Il ritorno è veloce, la jeep sobbalza e solleva nuvole di polvere che poi ritroveremo tra i capelli e nei vestiti.

Difficile da descrivere, l’esperienza nella Monument Valley va vissuta di persona, in stretto contatto con questo paesaggio affascinante e infinito. Provo a immaginare un tempo, quando uomini solitari cavalcavano queste terre. Di pelle bianca o rossa, con il cappello di cuoio o con il copricapo di piume, sicuramente tutti affascinati da questo magico deserto rosso e dal suo magnifico silenzio.

giovedì 3 aprile 2014

San Francisco, tra oceano e libertà


Alamo Square

Percorsa la strada che attraversa le terre agricole e talvolta aride della San Joaquin Valley, oltrepassiamo le zone di Berkeley e Oakland arrivando nella baia di San Francisco. I grattacieli della città si stagliano nel cielo limpido oltre il Bay Bridge mentre ci apprestiamo ad attraversarlo. Alla nostra destra si intravedono l’isola di Alcatraz e in fondo scorgiamo la sagoma rossa del Golden Gate avvolta nella nebbia. L’entusiasmo è alle stelle, attraversiamo la città passando dal South of Market (So.Ma), risalendo il Financial District da Market Street, passando da Union Square, Powell Street e presso la Grace Cathedral a Nob Hill, da North Beach fino al Fisherman’s Wharf e al Pier 39. 
    
Il molo è fantastico, si respira l’aria dell’oceano. C’è molto vento e fa freddo nonostante il sole. Tra boutique e negozi di souvenir, giostre e ristoranti di pesce, seguiamo la passerella che conduce tra le barche. Arriviamo in fondo al molo dove l’aria sferza il volto mentre un chiasso incredibile ci lascia ammutoliti. Di fronte a noi decine di foche e leoni marini se ne stanno adagiati su alcune banchine a prendere il sole. Alcuni lottano per il posto migliore, altri si fronteggiano duramente mentre altri ancora dormono o giocano a tuffarsi nell’acqua gelida. Lo spettacolo è impagabile. Passiamo diversi minuti a contemplare questi grossi animali mentre gabbiani e pellicani volano sopra di noi. Oltre il molo ecco apparire l’isola di Alcatraz tra i flutti della baia mentre in fondo scorgiamo il Golden Gate sempre avvolto in una fitta nebbia. Ci facciamo un panino fritto con polpa di granchio e gamberetti prima di riprendere la nostra visita di San Francisco. 


Lasciamo il Fisherman’s Wharf risalendo Van Nesse Avenue, passiamo tra le case vittoriane di Alamo Square, tra le bandiere arcobaleno di Castro, il quartiere simbolo della rivolta gay guidata da Harvey Milk negli anni Settanta, fin sulle Twin Peaks, le colline gemelle, per una bella vista dall’alto di San Francisco. 

Non perdiamo tempo e ci precipitiamo in Market Street per prendere l’autobus numero 21 che ci porta in dieci minuti su ad Alamo Square, a vedere le case vittoriane a schiera, un tempo dimora degli Hippies che le hanno ristrutturate e pitturate e da dove si gode di una delle viste più famose della città. 

Poi di nuovo sulla Market, alla Powell Station, dove prendiamo il biglietto per il Cable Car, il tipico tram di San Francisco. Da non confondere con i diversi tram che si vedono in giro per la città di diversi modelli e colori, donati da Milano, Boston, Birmingham, Philadelphia, San Diego e altre ancora. I Cable Car sono i tram storici che percorrono la Powell Street per poi risalire la Mason o la Hyde e scendere fin quasi al Fisherman’s Wharf. Esaltati aspettiamo il nostro turno vicino al Turntable, la pedana girevole che serve per girare il tram. Quindi saliamo, stando appesi fuori come nei più classici film ambientati a Frisco. Il tram sale incrociando altri tram che ci passano accanto.
La gente ride anche se pare un po’ tesa quando comincia la prima salita impervia. Si arriva in cima e subito comincia la discesa, altrettanto ripida. Poi il conducente esorta tutti a tenersi ben saldi: “Hold on! Hold on!” grida. Ed ecco che il tram affronta una curva accelerando e tutti si guardano e scoppiano a ridere. Poi un’altra salita e un’altra discesa ancora, e così via. Fantastico! Scendiamo tra la Mason e la Columbus Avenue risalendo a piedi la Lombard Street fino al tratto più famoso, Crookedest Street, la strada più tortuosa del mondo, a Russian Hill. La strada si fa tortuosa, tra cespugli fioriti e un buon numero di curiosi, dove le macchine possono solo scendere, lentamente. Arriviamo all’incrocio con la Hyde Street dove vediamo passare altri Cable Car. Stando là in cima e guardando giù per la Lombard Street si vede la strada scendere e risalire su per Telegraph Hill, con la sua torre simbolo, la Coit Tower, e a destra North Beach, il quartiere italiano con dietro i grattacieli del Financial District, dove svetta il Transamerica Pyramid. Volgendo lo sguardo a sinistra invece si vede la Hyde Street scendere fino al mare con l’isola di Alcatraz. 

Decidiamo di scendere nuovamente lungo il tratto tortuoso lungo la Lombard Street fino alla Columbus, raggiungendo quindi Washington Square con la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo a North Beach. Qui ci sono numerosi ristoranti italiani con adesivi tricolori ai lampioni anche se non è così appariscente. Proseguiamo lungo Grant Avenue addentrandoci a Chinatown, il quartiere cinese. Incredibile come da una strada all’altra tutto cambi in fretta: negozi con insegne cinesi, persone dai lineamenti asiatici nettamente in maggioranza, case simili a pagode. Comincia a fare buio e l’appetito non manca. Torniamo verso il quartiere italiano e ceniamo da Figaro, lasagne e pasta con il pesce accompagnati da un Sauvignon della Napa Valley. 
  
La mattina seguente ci rechiamo al Golden Gate, fermandoci prima a Fort Point, nella zona del Presidio, costruito prima della Guerra Civile, dove si gode di una bella vista da sotto il famoso ponte. C’è il sole, il cielo è limpido e fortunatamente non c’è traccia della nebbia del giorno prima. 

Ed eccoci finalmente a camminare sul Golden Gate, inaugurato nel 1937, costruito in cemento e acciaio, lungo 2700 metri e sostenuto da cavi enormi. Completamente verniciato di rosso, ci vogliono due anni per pitturarlo e quando gli addetti ai lavori lo stanno per finire è già tempo di ricominciare dall’altra parte. Un’opera imponente che sfida le intemperie, l’oceano e la forza corrosiva della salsedine da oltre mezzo secolo. Il ponte è accessibile ai pedoni solo sul lato destro, in uscita dalla città. A est si può godere della skyline di San Francisco e delle isole di Alcatraz e Angel, oltre che della baia stessa. Ad un’altezza di 67 metri riusciamo a vedere le foche che nuotano tra le onde, mentre alcuni mercantili si dirigono verso il porto. Ci sono molti pellicani e gabbiani. Notiamo alcune cabine telefoniche di cui avevamo sentito parlare. Visto l’alto numero di suicidi dal ponte i telefoni d’emergenza sono per chi ha bisogno di aiuto. Risponde uno psicologo mentre nel frattempo accorre una pattuglia della polizia. Le macchine scorrono nei due sensi di marcia a più corsie mentre camminiamo sul marciapiede. 

Dopo circa un’ora arriviamo dall’altra parte, al Vista Point, dove si vede bene la città. Raggiungiamo Sausalito, un piccolo paese un tempo villaggio di pescatori, affacciato sulla baia. Dopo un breve giro decidiamo di rilassarci in un bar del porticciolo, sorseggiando un caffè freddo gigante. Il silenzio, l’odore del mare, la skyline di una città fantastica come San Francisco, rendono questi momenti indimenticabili. Verso mezzogiorno prendiamo il battello, sfidando il forte vento. Riappare il Golden Gate, prima nascosto dal promontorio, mentre ci avviciniamo all’isola di Alcatraz, famosa per essere stata un penitenziario di massima sicurezza. Qui furono rinchiusi criminali pericolosi, del calibro di Al Capone. Dopo la sua chiusura avvenuta a causa del duro regime carcerario contestato dall’opinione pubblica, sono stati girati diversi film come “The Rock” e “Fuga da Alcatraz”. Le prigioni dell’isola si possono visitare ma bisogna prenotare con largo anticipo. Raggiungiamo il porto costeggiando la città dove sono ben visibili le colline con le strade in salita di Pacific Heights, il Fisherman’s Wharf, il Transamerica Pyramid e i palazzi del Financial District oltre al Ferry Building con la scritta Port of San Francisco dove attracchiamo. Alle nostre spalle il Bay Bridge. 
Lasciamo il battello e il Ferry Building con la torre alta 71 metri del 1898, unico edificio resistito al terremoto del 1906, e ci ritroviamo nella bella piazza antistante l’Embarcadero Center, dove entriamo per un giro prima di ritrovarci di nuovo sulla Market Street e proseguire fino all’incrocio con la 3rd, dove svoltiamo, oltrepassiamo la Mission Street e raggiungiamo gli Yerba Buena Gardens, di fronte al SFMOMA, il Museum of Modern Art. Il silenzio, l’erba finemente tagliata, la tranquillità di quest’oasi che sorge tra moderni palazzi di vetro, musei e gallerie d’arte, invitano a lasciarsi andare. Ci sdraiamo nell’erba a guardare il cielo, il rumore del traffico pare lontano, forse coperto dallo sciabordio delle cascate d’acqua poco distanti. Le persone qui sembrano tutte così serene e piene di vita. Ricorda molto le città della East Coast, un po’ europee oltre che americane, come Boston. Una vecchia chiesa che sorge tra i grattacieli di recente costruzione. Mi sembra di esserci già stato. Sarà perché mi sono innamorato di questo luogo. Ci rialziamo storditi da tanta tranquillità per riprendere il nostro fantastico tour.

Passiamo di fronte al Moscone Convention Center, dedicato all’ex sindaco Moscone ucciso insieme all’attivista e politico Milk nel 1978. Prendiamo l’autobus 45 che percorre Chinatown, North Beach e la Union Street, e scendiamo all’incrocio con Steiner Street, a Pacific Heights, per salire su fino alla casa utilizzata nel film Mrs Doubtfire con Robin Williams, praticamente rimasta uguale. Molto belle anche le case vittoriane che si vedono tra queste strade, su e giù per le colline. La stanchezza comincia a farsi sentire mentre percorriamo la Union Street fino all’incrocio con la Van Ness Avenue dove prendiamo l’autobus 47 che ci porta al Civic Center con il City Hall, l’Opera e la Biblioteca Pubblica. Siamo sfiniti.

Verso sera saliamo sul tram (linea F) che percorre Market Street e l’Embarcadero fino al Fisherman’s Wharf. Torniamo al Pier 39 per vedere le foche e i leoni marini. Ce ne sono sempre tanti anche se alcuni cominciano ad allontanarsi in gruppi di cinque o sei, forse perché sta diventando buio. Il panorama è sempre incredibile mentre il sole tramonta sulla baia. Ceniamo al Swiss Louis, al molo. Il cameriere, di origini italiane, ci fa sedere ad un tavolo in un angolo della sala con le vetrate. Sotto di noi vediamo le banchine con le foche, di fronte il Golden Gate, a destra Alcatraz e a sinistra le colline di Pacific Heights. Si poteva fare a meno di mangiare dato che stavamo gustando appieno gli ingredienti essenziali della baia di San Francisco! Dopo un paio d’ore ritorniamo con il tram affollato verso l’hotel. Già sentiamo la malinconia della partenza. Vorremmo rimanere ancora per un po’. Ma purtroppo non è possibile. 

Sulle note di “I leaving my heart in San Francisco” ce ne andiamo lasciandoci Frisco alle spalle. 
Sicuramente non è un addio, ma un “arrivederci San Francisco”.